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Aziende familiari, vince chi riesce a diventare globale

L’addio della famiglia Moratti all’industria è solo l’ultimo in ordine di tempo di una serie ininterrotta di disimpegni del capitalismo italiano. Una scelta legittima, comprensibile. Nessuno la contesta. I figli hanno tutto il diritto di non seguire le orme dei padri. Peccato, invece, che si ragioni assai poco sui segnali di affaticamento dell’imprenditoria italiana e sull’attrazione diffusa alla condizione di rentier. La perdita costante di animal spirits del capitalismo nostrano è alimentata da una cultura contraria alla concorrenza e dalla rivalutazione acritica del ruolo dello Stato in economia.

La sindrome dei Buddenbrock

Non era mai accaduto a chi scrive di proporre a una platea di manager e industriali un quesito sulle privatizzazioni e constatare che la maggioranza di loro fosse fortemente contraria. Basta privatizzazioni. Trent’anni fa sarebbe stata considerata un’eresia. Una società anziana esprime un tasso di imprenditorialità modesto. Tanto è vero che la voglia di intrapresa è maggiore tra gli immigrati. Sembrerebbe persino naturale. Ma in prospettiva non è proprio rassicurante. Il passaggio di testimone alla terza generazione è quello più complesso in assoluto. È la sindrome dei Buddenbrook, dal celebre capolavoro di Thomas Mann. Ma per fortuna, in questo caso, Milano non è Lubecca. 

 
 

Eredità difficili

Semmai dovremmo guardare un po’ più ad Est, alla Torino degli Agnelli, per trovare un po’ più di romanzo. Nonostante il testimone sia stato passato per tempo, e con una scelta alla prova dei fatti e dei numeri positiva, almeno per la famiglia, la lite per l’eredità dell’Avvocato secerne una quantità tossica di amarezze che ci lascia interdetti. Vorremmo dire: fate la pace, trovate un compromesso. Ne va della vostra, ma anche un po’ della nostra storia.
Siamo sicuri, tornando alla scelta dei Moratti e conoscendo la loro sensibilità sociale, che avranno modo di condividere parte del ricavato della vendita agli olandesi e svizzeri di Vitol con le comunità alle quali non hanno fatto mai mancare il loro aiuto. Anche per compensare, in questo modo, la delusione dei piccoli azionisti che hanno creduto nel progetto di sviluppo presentato loro al momento della quotazione.


 

I manager esterni

«Il capitalismo familiare italiano è un coacervo di qualità e debolezze — spiega Andrea Colli, storico dell’economia e docente alla Bocconi — ed è problematico arrivare alla quarta generazione. Generalmente alla terza le dinamiche familiari divergono da quelle dell’impresa, anche quando si ha il coraggio e l’avvedutezza di separarne i destini e di affidarsi a manager esterni. È quasi una legge di natura». Ma quali sono gli esempi positivi, e ce ne sono, che contraddicono questa legge di natura dell’impresa? Colli ha studiato a fondo le vicende assai diverse del cosiddetto quarto capitalismo, quello delle multinazionali tascabili. «Le maggiori virtù stanno nel tradimento. Mi spiego meglio: chi è stato capace di fare il salto dell’internazionalizzazione, di diventare leader anche in piccole nicchie ma globali, di diversificare rispetto al business dei padri e dei nonni, ha ridato nuova linfa e diversa vita alle imprese familiari. Ma le aziende si sono trasformate in un’altra cosa, del tutto diversa. Chi, invece, è rimasto anche sentimentalmente intrappolato nell’attività tradizionale, magari troppo esposta al mercato interno, ha pagato un prezzo elevato alla propria fedeltà familiare. Bisognerebbe dire agli eredi: traditemi, diversificate, reinventatevi, guardatevi dal culto insidioso del fondatore».


 

Gli esempi positivi

Gli esempi per fortuna sono numerosi in tutti i settori — dall’alimentare biologico alle macchine utensili più sofisticate, dalla meccanica di precisione alla chimica fine — a testimonianza comunque di una vitalità dell’impresa italiana. Curioso che tra le storie più positive oggetto degli studi di Colli vi sia quello della famiglia Bonomi che negli anni Ottanta, specie dopo la proditoria scalata della Montedison di Mario Schimberni alla Bi-Invest, sembrava sconfitta sul piano industriale e finanziario. In realtà nel passaggio tra Carlo Bonomi, che ereditò dalla madre Anna Bolchini, ad Andrea, si è realizzato nelle generazioni il passaggio dall’immobiliare all’industria e infine al private equity.
La rigenerazione di una famiglia di imprenditori che sembrava battuta per sempre dal capitalismo di mercato, quando tutti celebravano il mito della contendibilità e dell’impresa aperta. Ora la preoccupazione principale — come testimonia il contestato provvedimento sulla governance societaria in via di approvazione — è quello di chiudersi con il voto plurimo o maggiorato.


 

Fonti fossili? Non sono finite

Nel caso della vendita di Saras, si potrebbe obiettare superficialmente che essendo il petrolio il nemico della transizione energetica, bene hanno fatto i Moratti a vendere sui massimi del mercato azionario. Il futuro non è delle raffinerie. Ma non quello immediato. L’impianto di Sarroch, in Sardegna, assicura un quinto del fabbisogno italiano di derivati del petrolio, dei quali avremo bisogno per tanti anni ancora. Forse è anche questa una delle ragioni per le quali si ipotizza di usare il golden power per condizionare il passaggio di proprietà.
Ma non è un’attività industriale di retroguardia? Persino l’Eni fa di tutto per apparire quello che non è. La realtà è molto diversa. Vitol non è entrata in un business che rende di meno. Tutt’altro. Come spiega Davide Tabarelli, di Nomisma, siamo ai massimi nell’impiego delle fonti fossili. I guadagni su petrolio e carbone non sono mai stati così alti, lungo tutta la filiera. I margini di raffinazione per esempio sulla qualità Brent erano di 1,4 dollari al barile nel 2020. Nell’agosto del 2023 hanno toccato addirittura i 19,9. Oggi sono tornati a 4. Nomisma prevede però che risaliranno. 


 

Gli errori da evitare

E anche chi si augura che la transizione sia la più veloce possibile, non può minimizzare il rischio di dover sopportare i costi di una non improbabile crisi energetica nei prossimi anni. Anche provocata dai minori investimenti nella prospezione e nella raffinazione. Quest’ultima si riteneva che sarebbe diventata una esclusività dei Paesi produttori. Così non è stato. Vi è un’altra considerazione di carattere generale in margine al caso Moratti. Vitol è un gigante europeo nel commercio dei prodotti petroliferi. Non è quotato, gli azionisti sono una moltitudine di dipendenti.
Perché il nostro sistema che ha avuto miriadi di petrolieri, raffinatori, imprenditori della chimica di base non è stato in grado di creare una conglomerata di questa natura pur avendo avuto e continuando ad avere una posizione geografica del tutto competitiva? E perché l’azionariato dei dipendenti è promosso solo quando le aziende sono ormai a gambe all’aria?

 

(Fonte: Corriere Economia)

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