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Borsa da record, imprese piccole: le cose da fare per attirare più capitali

Encomiabile lo sforzo di chi è chiamato, in questo tempo di bilanci annuali, a spiegare come sono andate le cose. A render conto di scelte opportune o avventate. I risparmi degli italiani -— specie quelli lasciati sui conti correnti — continuano a essere aggrediti dall’inflazione che non è scomparsa né tantomeno sconfitta dalla formidabile riuscita del «carrello italico» nei supermercati. Battute a parte, tutta la nostra comprensione va a chi, nella gestione professionale del risparmio, deve giustificare qualche performance non brillante. In particolare le gestioni attive che sono state, nella stragrande maggioranza dei casi, assai deludenti.

I numeri
 

Eravamo usciti da un anno, il 2022, peggiore di sempre per le obbligazioni, il settimo più negativo in assoluto per le azioni, il terzo più brutto per la classica ripartizione del 60% in azioni e 40% nel reddito fisso. La sequenza inaspettata di aumento dei tassi d’interesse, da parte della Fed e della Bce, ha certamente influito nel creare un clima di incertezza, nel peggiorare le aspettative a breve. Ma è anche vero che, nonostante la stretta monetaria, l’economia americana — anche qui a dispetto delle previsioni di molti analisti — continua ad andare bene (cresce a un tasso superiore al 5,2% nel terzo trimestre, oltre le stime), l’Europa certo ha mostrato segni di rallentamento ma non è ancora in recessione come molti temevano e temono.

 

Persino l’Italia, nel terzo trimestre, segna una crescita migliore di tedeschi e francesi. I mercati finanziari, in assoluto, non sono andati così male, nonostante siano in corso ben due guerre. L’indice mondiale delle Borse ha guadagnato, in dollari da inizio anno, circa il 17%; il Nasdaq 100 intorno al 40%. Nel risparmio gestito, professionale, dunque, la clientela soprattutto italiana si aspettava di più. Anche perché, anziché fare il giro del mondo alla ricerca di impieghi esotici e remunerativi, sarebbe bastato, molto provincialmente, concentrarsi sulla Borsa italiana e puntare passivamente sul suo indice, con un Etf per esempio. Senza tanti problemi (ed elevate commissioni).

La Cenerentola di tutte le Borse continentali, la tanto bistrattata Piazza Affari, si avvia a concludere un anno eccezionale. L’indice Ftse-Mib ha da poco superato quota 30 mila. Non accadeva dal giugno del 2008, cioè dall’estate precedente alla crisi Lehman e all’esplosione dello scandalo dei subprime, con relativa e generale caduta dei corsi azionari. Insomma, chi avesse puntato tutto sul Ftse Mib — e dunque contro le regole auree della diversificazione — avrebbe guadagnato più del 27%. Piazza Affari è regina d’Europa anche in virtù di peculiarità e debolezze che, in altri momenti, l’avrebbero penalizzata rispetto a mercati più robusti e articolati. Il boom del 2023 è spiegato dalla predominanza di banche, finanziarie e grandi utility legate al mercato dell’energia.

Un difetto costitutivo si è trasformato, magicamente, in un pregio inaspettato. Gli istituti di credito godono della straordinaria congiuntura di avere (ancora per quanto?) un differenziale tra tassi attivi e passivi che ha permesso, insieme ai proventi del risparmio gestito, di fare utili eccezionali. E ai bancari di siglare il miglior contratto della propria storia con un aumento del costo del lavoro intorno al 10 per cento. Altri settori non possono semplicemente permetterselo. Un biglietto augurale natalizio ai correntisti e ai clienti dell’asset management — a firma congiunta di banchieri e sindacalisti — sarebbe gradito.

 

Piccole «dimenticate»

 

Il successo del mercato azionario italiano non si è tradotto però in un afflusso di capitali per le piccole e medie imprese, che sono il cuore del mondo produttivo italiano. Le large cap sono andate decisamente meglio delle mid e small cap che hanno guadagnato assai poco, in media sotto il 10%. Piazza Affari non ha svolto fino in fondo, nemmeno in un anno eccezionale, il suo ruolo principale. Ovvero, quello di far confluire il risparmio verso le attività produttive, suscettibili di maggior crescita e, dunque in prospettiva, di creazione di lavoro e reddito nel nostro Paese.

Ed è questa la ragione che ha indotto Borsa Italiana, di cui è presidente Claudia Parzani, insieme ad Equita, Assonime e Bocconi, a promuovere un Manifesto per lo sviluppo del mercato dei capitali. Dieci proposte, le più importanti delle quali sono dirette ad aumentare gli investimenti domestici che in Italia sono inferiori al 10% della capitalizzazione di Borsa e altrove in Europa raggiungono anche il 30%. Ma come — ci si chiede — non è bastato il disegno di legge sui capitali e sulla governance che probabilmente non verrà approvato definitivamente entro la fine dell’anno? No. Proprio l’andamento eccezionale di piazza Affari dimostra che bisogna far qualcosa di più. Anche perché — ulteriore e beffarda coincidenza — quest’anno si sono conclusi i cinque anni della scadenza fiscale per i Pir, i Piani individuali di risparmio, introdotti per la prima volta nel 2017 proprio allo scopo di favorire l’afflusso di risparmio privato verso le piccole e medie imprese.

 

La tempesta perfetta

 

«C’è stata una tempesta perfetta — è il commento dell’amministratore delegato di Borsa Italiana, Fabrizio Testa —. I sottoscrittori dei Pir ordinari hanno preferito usufruire del vantaggio fiscale di non pagare le tasse sui capital gain dopo cinque anni di sottoscrizione, uscire dal loro investimento, in molti casi del tutto soddisfacente, e magari puntare sui titoli di Stato. Il deflusso ha così impoverito uno strumento che si è rivelato, pur tra tante difficoltà, prezioso per far affluire risparmio privato alle piccole e medie imprese. La nostra proposta, sulla quale c’è un’apertura significativa del sottosegretario all’Economia, Federico Freni, è quella di consentire a chi sottoscrive Pir ordinari di diversificare, rimuovendo la regola dell’unicità e, per quelli alternativi, una disciplina dell’asset allocation che comprenda più mid cap quotate».

 

Le proposte

 

Tra le proposte del manifesto c’è anche quella di incentivare, soprattutto da parte di fondi pensioni e casse professionali, ma anche di banche e assicurazioni, gli investimenti di portafoglio nelle piccole e medie imprese, soprattutto quelle quotate nel segmento Star caratterizzate da un rapporto tra prezzo e utili ancora distante da altre valutazioni, come quelle del private equity. «Se soltanto riuscissimo — continua Testa — a mobilitare una quota minima degli impieghi dei principali investitori istituzionali italiani, avremmo una massa d’urto tra i tre e i cinque miliardi che costituirebbe una sorta di punto di svolta». Un fondo dei fondi, a partecipazione pubblica (Cassa depositi e prestiti) e privata, potrebbe ulteriormente finanziare l’universo delle piccole imprese a buona prospettiva di crescita, favorire le indispensabili fusioni e vincere quella ritrosia alla quotazione che ha negli anni depresso il rapporto tra la capitalizzazione e il Prodotto interno lordo (Pil). In Italia siamo intorno al 35%; la Germania è al 45%; in Francia e in Olanda si supera abbondantemente il 100%.
 

Continuano i delisting anche se in calo rispetto al 2022. Sono 29 le nuove società approdate al mercato crescita e 10 a quello principale, di cui 5 passate dal primo al secondo. Colpisce poi che in Italia non si faccia più ricerca sulle nuove realtà societarie, forse anche per l’effetto delle regole Mifid. Ed è del tutto incredibile che si debba addirittura arrivare a ipotizzare un credito di imposta per spingere gli intermediari a guardarsi intorno con maggiore interesse e curiosità. Sotto il miliardo di fatturato non fa ricerca quasi più nessuno. Più che da incentivare sarebbero da multare, ma tant’è.

 

(Fonte:  Corriere Economia)

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