Quella del «cassettista» è stata a lungo una figura mitica dell’investimento azionario. Sembrava già antiquata anche quando le azioni si contrattavano nel «recinto alle grida» o nelle corbeille. Agli occhi degli agenti di cambio e dei procuratori — che di lì a pochi anni avrebbero mutato completamente veste e lavoro — era il simbolo impolverato della prudenza se non della pigrizia. Del resto un investitore che si teneva i titoli per anni — e magari li passava ai propri figli — non era certo considerato un dinamico promotore del mercato. Tutt’altro. Una trasfigurazione di Demetrio Pianelli (il travet del romanzo di Emilio De Marchi). La virtù della modestia. Tra i titoli preferiti dai cassettisti del Novecento c’erano quelli delle Generali (che si scambiavano facendo il segno di un saluto militare). Oppure — in particolare nella borghesia cattolica lombarda — quelli del Banco Ambrosiano. Sappiamo come andò a finire. Ora è del tutto curiosa la rivalutazione recente di questa tipologia di investitore. Se vogliamo i fondi passivi, gli Etf, non sono altro — gira e rigira — che delle versioni aggiornate del cassettista novecentesco.
Certo, il cassettista è il nemico dei volumi e delle commissioni. Ma se decide di credere alle prospettive di crescita di una società, non solo per «tagliare le cedole» e godere della rivalutazione del capitale, non è escluso che abbia uno sguardo lungo e sia immune dall’emotività che amplifica le crisi. Il cassettista che credette, con mille dollari, alla quotazione di Amazon, nel 1997, oggi può capitalizzare — senza avere fatto nulla — circa 2,5 milioni. Ma non sempre finisce così bene.
Quando parliamo di investitori pazienti ci riferiamo generalmente agli istituzionali, ai fondi pensione, aperti o chiusi, alle casse di previdenza. Quasi mai al singolo risparmiatore. Forse per proteggerlo da rischi che non è in grado di valutare e soprattutto dalle trappole dei prodotti illiquidi. Sacrosanto. Ma anche con un pregiudizio sulla sua immaturità che non sempre è fondato.
Nel collocare le ultime emissioni di debito pubblico poi, il Tesoro premia il «cassettista» che non vende un titolo prima della scadenza. Un grande debitore come lo Stato italiano non può che confidare (e sperare) nella prudenza e nella pazienza dei suoi creditori.
Ma la metà del debito pubblico italiano è collocato presso investitori finanziari, banche e assicurazioni, che ai primi segnali di una crisi finanziaria sono costretti — anche in ossequio a principi contabili internazionali che portano nei bilanci la volatilità dei mercati — a sbarazzarsi dei titoli per non andare incontro ad altre perdite, quando non a specularci sopra con vendite allo scoperto.
La questione fiscale
Un premio fiscale di fedeltà ha decretato il successo iniziale dei Pir (Piani individuali di risparmio), salvo poi, alla scadenza dei cinque anni esentasse, favorirne il forte ridimensionamento. La differenza nella tassazione degli investimenti finanziari (12,5% per i titoli di Stato e 26% per le azioni, le obbligazioni e i depositi bancari) avvantaggia il debitore pubblico. Ma rimane il grande interrogativo della dispersione di rendimento dei depositi bancari (1.800 miliardi circa) che avendo una scarsa remunerazione, alla fine danneggiano anche l’Erario che con altri impieghi potrebbe incassare molto di più. O creare più economia reale.
Non sarebbe meglio, in altre parole, incentivare la sottoscrizione di azioni di piccole e medie imprese, attraverso strumenti, come i fondi dei fondi per esempio, e con le adeguate avvertenze e protezioni, premiando fiscalmente la fedeltà dell’azionista? È l’interrogativo che si pone il commissario Consob, Federico Cornelli, la cui analisi del drammatico bisogno di equity è contemporaneamente chiara e inquietante. «Da tempo rilevo una forma di miopia che offusca il nostro dibattito sulla crescita dell’economia. Siamo troppo concentrati sull’andamento dei tassi d’interesse e sul comportamento della Bce. Ma l’offerta di credito c’è e a tassi sostanzialmente corretti. Un’impresa italiana sana lo può trovare a un costo vicino a quello di un concorrente tedesco, cioè di un Paese che fa funding sui mercati con rating molto migliore. Questo dimostra che il sistema bancario italiano è una infrastruttura solida ed è più efficiente di quello tedesco. La nostra miopia sta nel non vedere che abbiamo invece un forte bisogno di equity, di capitale di rischio paziente, senza il quale non si fa la transizione energetica, non si rafforza l’industria nazionale nella sfida competitiva, non si dà impulso alla crescita, non si crea il prossimo ciclo economico di lungo termine. Un bisogno europeo, sia ben chiaro, non solo italiano. L’Europa, nel suo complesso, necessita di una fase di ricapitalizzazione, con capitali pazienti europei. Altrimenti come finanzieremo i 600 miliardi stimati per realizzare gli obiettivi del Green Deal? O i 120 miliardi per la sfida digitale e per la Difesa? La fiscal policy non può sostenere da sola questo compito. Peraltro un rafforzamento patrimoniale delle imprese più innovative può dispiegare effetti positivi anche sui modelli di valutazione di rating Paese, in quanto riduce le variabilità di output produttivo e innalza la produttività».
Chi scrive ha una spiegazione un po’ brutale sulla miopia del dibattito attuale tutto concentrato sulla futura discesa dei tassi. In un Paese obnubilato dai troppi sussidi e prestiti garantiti dallo Stato (altro gigantesco debito occulto), in cui la sensazione di potersi indebitare senza limiti è purtroppo radicata, quel «bisogno di equity», di cui parla Cornelli, non è sentito come una necessità ma solo come un’opportunità.
Chi difendere
«Il nostro grande tesoro — prosegue Cornelli — è il risparmio privato, difeso costituzionalmente. La ricchezza finanziaria, in rapporto al Pil, è molto solida anche nel confronto europeo. Gli italiani poi, non dimentichiamolo, sono proprietari di case, a differenza dei tedeschi. I fondi pensione e le Casse di previdenza possono svolgere un ruolo fondamentale per la crescita del Paese, e il risparmiatore può cominciare a capire che una percentuale del suo fondo pensione deve essere investita in azioni, per suo primo interesse privato e interesse collettivo. Vanno in questa direzione il decreto Capitali e la revisione del Testo unico sulla finanza promossa dal governo. Un fondo pensione con una percentuale di azionario può aiutare la mia pensione futura ma anche l’intera economia».
E la Borsa infine
Oltre al rilancio dei Pir (il limite massimo di investimento rimane a 200 mila euro nel quinquennio, 40 mila l’anno) e a un ruolo più attivo di fondi pensione e casse (l’esempio è la Svezia che obbliga a percentuali minime di investimento in azionario nazionale), Cornelli riflette per un più favorevole trattamento fiscale del capitale paziente. Il risparmio previdenziale destinato alle imprese italiane equivale solo allo 0,4% del totale delle loro passività. Briciole. Poi resta il mistero gaudioso di un mercato azionario italiano che capitalizza solo il 37% del Pil (contro il 114% della Francia e il 50% della Spagna) nel quale spesso gli stimoli ad uscire sono superiori alla convenienza di restare quotati o di scegliere di farlo.
(Fonte: Corriere Economia)
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