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Debito e crescita, ecco perché è un errore dire no ai prestiti Ue

Ci sono realtà che bisogna riconoscere, quando si parla del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Non per gettare la spugna e dirsi che non c’è più niente da fare, ma al contrario per definire i punti di partenza e la strategia. Ecco dunque alcune di queste realtà. Solo nel 2022, tra settore pubblico e settore privato, la Francia ha investito 256 miliardi di euro più dell’Italia e la Germania ne ha investiti 474 in più. In un solo anno i nostri due principali partner e concorrenti hanno dispiegato in ricerca, macchinari, infrastrutture e tecnologie somme pari — rispettivamente — a oltre un Recovery e a oltre due Recovery in più rispetto all’Italia. Si potrebbe pensare che questi scarti riflettano le diverse dimensioni fra le economie nazionali, ma non è così. Non era già più così una quindicina di anni fa, quando il ritardo italiano negli investimenti era di cento o 150 miliardi l’anno (ai valori correnti) sui due grandi Paesi dell’area euro. Ma ora che lo scarto si è allargato a molte centinaia di miliardi l’anno, la sproporzione è ancora più evidente.

La Francia sviluppa un prodotto interno lordo di un terzo maggiore del nostro, ma investe due terzi di più; la Germania ha un Pil pari quasi al doppio del nostro, ma investe parecchio più del doppio rispetto a noi.

Lo Stato francese nel 2022 ha investito il doppio dello Stato italiano, le imprese francesi oltre duecento miliardi in più rispetto alle imprese italiane. Queste sono le grandezze relative a dove stiamo andando, basate sulla banca dati della Commissione europea. Immaginiamo di proiettare un simile ritardo sui prossimi dieci anni e l’arretratezza dell’Italia rispetto alla frontiera europea — non parliamo neanche di Stati Uniti, Cina o Giappone — sarebbe abissale. Avremmo infrastrutture, nuovi immobili, tecnologie, conoscenza, capacità digitale, capacità di produzione energetica, capacità di produzione agricola, automazione industriale per un valore di migliaia di miliardi in meno. È il futuro che vogliamo?

 

Difficile credere che questa visione animi le voci che in queste settimane si fanno sentire perché il governo rinunci almeno a una parte dei prestiti del Pnrr. Eppure in Italia si è formata una strana coalizione, molto eterogenea, che spinge in quella direzione: l’ala più anti-europea della maggioranza non vede l’ora di veder fallire il progetto di Bruxelles che più contraddice i suoi pregiudizi; ci sono poi osservatori divenuti più scettici su quanto sia possibile fare oggi del Pnrr, preoccupati soprattutto che i prestiti europei non finiscano per far salire il debito senza benefici visibili per l’economia. Questi timori sono legittimi, ma di nuovo vanno confrontati alle grandezze in gioco e ai possibili scenari alternativi. Il punto di partenza è che dei 191,5 miliardi di investimenti del Pnrr, 67 li faremmo comunque perché erano e restano già programmati. Invece si può ipotizzare che, senza Pnrr, rinunceremmo ai restanti progetti per 124,5 miliardi.

La differenza nel costo fra i due scenari salta agli occhi: poiché il Piano europeo è un misto di sussidi e prestiti a scadenza trentennale sui tassi agevolati di Bruxelles, con il Pnrr l’Italia è in grado di sviluppare investimenti per quasi duecento miliardi di euro pagando solo 2,5 miliardi di interessi all’anno. Senza il Pnrr, finanziandoci ai costi del debito trentennale italiano, l’Italia potrebbe sviluppare solo 67 miliardi di investimenti pagando in interessi 2,7 miliardi l’anno. In sostanza, rinunciando ai prestiti, avremmo meno della metà degli investimenti. Eppure pagheremmo di più.
 

Lo scenario della rinuncia totale o parziale ai prestiti è solo una gradazione meno drastica di quello appena descritto: non conviene. Il capo-economista di Intesa Sanpaolo Gregorio De Felice stima che con i prestiti del Piano di Bruxelles l’Italia risparmia 50 miliardi di euro in interessi. Cosa è più rischioso per il debito, prenderli o lasciarli sul tavolo?

Naturalmente, il punto resta investire nei modi e tempi giusti. Il governo di Giorgia Meloni ha diritto e probabilmente anche ragione di rivedere centinaia di progetti troppo piccoli e affidati ad amministrazioni troppo gracili. Si aspetta su questo una trasparenza che ancora non c’è stata. Ma pensare di poter presentare a Bruxelles i nuovi piani solo in estate, non questo mese, espone al rischio che le prossime erogazioni vengano bloccate: per avere i prossimi via libera in giugno, bisognerà infatti mostrare di aver centrato obiettivi di spesa su progetti che forse il governo vuole rimuovere. Dunque, anche se l’amministrazione fatica, ora il tempo stringe.

Forse il solo modello per avanzare è quello indicato da Joe Biden negli Stati Uniti con l’Inflation Reduction Act: dare più spazio ai crediti d’imposta per le imprese che si impegnano su investimenti (anche in formazione) definiti con parametri precisi. Le imprese italiane ne hanno bisogno per tenere il passo delle svolte tecnologiche. L’Istat mostra che nel 2022 ben dodici fra i ventidue grandi settori produttivi italiani registrano un calo dell’export in volumi. Fra questi filiere strategiche come i macchinari, l’auto, il mobile. È tempo di un’alleanza fra Stato e privati per gli investimenti; senza, la strada del Pnrr rischia di diventare una salita proibitiva.

 

(Fonte: Corriere Economia)

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