Nelle prossime settimane la presidente del Consiglio dovrà prendere qualche decisione importante in campo economico: innanzitutto se chiudere le polemiche sul Pnrr e concentrarsi sull’attuazione del piano, oppure seguire chi, nella sua maggioranza, attribuisce i ritardi ad errori del precedente governo e chiede di spostare in là le scadenze. Poi decidere chi nominare al vertice di numerose aziende controllate dallo Stato, a cominciare da Enel, Eni e Leonardo. Infine, costruire alleanze con altri Paesi per non trovarsi isolata nei prossimi Consigli europei dove si discuterà di regole fiscali, di un nuovo Patto di stabilità e di come rispondere all’Inflation Reducion Act di Biden che ha stanziato circa 400 miliardi di dollari in sussidi per imprese americane e europee.
Chi critica i ritardi nel Pnrr ancora non ha capito che quel piano è costruito su due presupposti: riforme e investimenti. Le riforme devono essere attuate prima che partano gli investimenti onde evitare — è il caso, ad esempio, del nuovo Codice degli appalti approvato alcuni giorni fa dal Consiglio dei ministri — che gli stessi investimenti, come spesso accade in Italia, appena avviati si fermino. Non ritardi quindi, ma interventi che impediranno che le opere del Pnrr partano di corsa per poi fermarsi dopo poco.
La redazione del nuovo Codice degli appalti fu affidata al Consiglio di Stato, il nostro massimo organo amministrativo, pensando che i magistrati amministrativi, che un giorno potrebbero dover dirimere eventuali controversie, fossero le persone più adatte a scriverlo. Il codice approvato, che il ministro delle Infrastrutture ha impropriamente chiamato «Codice Salvini», ricopia quello redatto dal Consiglio di Stato, purtroppo con più di un elemento peggiorativo. Non sviste, ma modifiche ad hoc introdotte per accontentare richieste precise.
Uno degli obiettivi del Consiglio di Stato era evitare che gli appalti fossero gestiti da «stazioni appaltanti» troppo piccole e quindi non in grado di concludere le procedure rapidamente e senza errori. Questa norma è stata modificata prevedendo che «unioni di comuni» possano automaticamente diventare stazioni appaltanti. In questo modo la norma si svuota perché due comuni di quattro anime ciascuno, che non potrebbero singolarmente gestire un appalto, mettendosi insieme potranno farlo.
Un altro esempio è aver eliminato la norma per cui il lavoro delle stazioni appaltanti debba essere valutato, e quelle valutazioni indipendenti incidere sulle carriere e le retribuzioni dei loro dipendenti. Una modifica che farà contenti i sindacati, pregiudizialmente contrari a ogni forma di valutazione, ma che certo non garantisce la professionalità delle stazioni appaltanti.
Spostare in là delle scadenze del Pnrr è da evitare non perché ce lo impedisce la Commissione europea, ma perché ritardare non è nel nostro interesse. La crescita del 2023 sarà determinata in gran parte dagli investimenti del Pnrr che genereranno un impulso alla domanda pari a 2-3 punti di Pil in un solo anno: ciò significa portare la crescita vicino al 3%. Non attuarli significa tornare a tassi di crescita zero-virgola.
Non è la presunta lentezza il punto di contrasto con la Commissione europea, né le modifiche alla governance del Pnrr che è rimasta sostanzialmente invariata, ma, ad esempio, alcune norme sulla concorrenza come la durata delle concessioni dei porti che è stata estesa fino al punto di renderle di fatto permanenti. Ma qui torniamo ai balneari e al catasto, temi sui quali la maggioranza non sembra voler recedere dalla difesa di rendite indifendibili.
Il secondo tema sul tavolo sono le nomine. Qui, scelte dettate dalla competenza sono il minimo che ci si aspetta. Un rischio, per accontentare i partiti della maggioranza, è che si voglia soddisfare gli uni con posti di amministratore delegato, altri con presidenze. Era ciò che accadeva negli anni ’80 quando il governo era diviso fra democristiani e socialisti, con risultati certo non entusiasmanti (allora le presidenze valevano di più dei posti di amministratore delegato). Fu Carlo Azeglio Ciampi, primo ministro nel 1993, a decidere che per ciascuna società ci fosse un solo capo-azienda: l’amministratore delegato. I presidenti, diceva Ciampi, sostenuto dal suo ministro dell’Industria, Giuseppe Guarino, devono gestire il consiglio di amministrazione, ma non devono avere deleghe operative.
Gli ultimi due temi, nuovo Patto di stabilità e risposta ai sussidi americani sono collegati in quanto entrambi verranno discussi nella medesima sede: il Consiglio europeo. La strategia per costruire alleanze, come il ministro Giorgetti ha capito da tempo, è discutere i due temi insieme perché gli alleati nella riforma delle regole fiscali non sono gli stessi che nella riforma dei sussidi. L’Olanda, ad esempio, fa parte del gruppo dei frugali quando si parla di fisco, ma è contro la Germania quando si parla di sussidi. Muoversi in un consiglio a maggioranza variabile è più facile che trovarsi di fronte a oppositori compatti.
(Fonte: Corriere Economia)
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