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Fondo sovrano o paracadute? la moltiplicazione dello stato salva tutti

Tutto ciò che è pubblico oggi è cool. Dire che è di moda è persino riduttivo. È molto di più. Lo dimostra un piccolo ma significativo episodio. All’ultimo Festival dell’economia di Trento si stava discutendo, insieme al senatore a vita Mario Monti e all’economista Marco Buti, del futuro dell’Unione europea. Platea affollata con molti studenti. Silenziosa su tutti i temi. Eccetto uno. Quando l’ex presidente del Consiglio ha cominciato a parlare del ritorno dello Stato nell’economia si è alzato un applauso generale. Quasi liberatorio. In realtà Monti non voleva assolutamente celebrarlo, ma semplicemente ricordare che l’Unione ha un atteggiamento neutrale rispetto alla proprietà pubblica o privata delle imprese.

L’obiettivo dei trattati — che una volta sembrava scolpito nel marmo e ora, in pieno revisionismo, non più — è solo quello della tutela della concorrenza e del divieto di aiuti di Stato. Sembra un’altra era, però. In pieno riflusso antiliberista (si butta via tutto con furia quasi iconoclasta), lo Stato appare come un gigante buono e compassionevole in grado di risolvere tutto. A quali costi e con quali risultati non importa.


Il processo di beatificazione dell’intervento pubblico è in pieno svolgimento, favorito dalla necessità reale di rispondere agli investimenti statali di altri sistemi economici, a cominciare dagli Usa con l’Inflation reduction act. La parola chiave è «fondo sovrano». A livello europeo avrebbe anche un senso, come sostiene il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, visto che si tratterebbe di riequilibrare gli interventi di Paesi con maggiori capacità fiscali, come la Germania, senza danneggiare i più indebitati. Ma l’Italia non è la Norvegia. E non ha come altri Stati, quelli arabi per esempio, flussi continui di cassa da investire ogni anno. Dunque, parlare di fondo sovrano è un po’ fuori luogo. Sovranista suonerebbe meglio.
 

L’obiettivo

La dotazione iniziale del Fondo strategico nazionale, annunciata dal ministro per le Imprese e il Made in Italy, Adolfo Urso, subito dopo l’approvazione del relativo provvedimento da parte del Consiglio dei ministri, è stata subito ridimensionata da un miliardo a 700 milioni. Una goccia, per giunta trattenuta, nell’oceano. Il Fondo ha come scopo il sostegno alle filiere più importanti dell’economia italiana, coinvolgendo anche capitali privati e il risparmio degli italiani. Attinge, per gli iniziali 700 milioni, alla ipotetica dotazione di Patrimonio Destinato, prima ancora Rilancio, che il governo Conte 2 affidò in gestione alla Cassa depositi e prestiti (Cdp). Decreto reso operativo solo nel marzo del 2021. Eravamo in piena pandemia e si promise un impegno «fino a 44 miliardi» per interventi nel capitale di società, non bancarie, né finanziarie, né assicurative, con almeno 50 milioni di fatturato e la sede legale in Italia. In realtà il ministero dell’Economia di miliardi, alla fine, ne ha attribuiti alla Cdp, sotto forma di titoli di Stato, soltanto tre con la scusa che l’emergenza era in parte rientrata. Della dotazione iniziale, circa quattro miliardi sono stati impiegati invece per il riacquisto da parte del ministero del controllo di Sace. Altri due miliardi sono andati poi alla stessa Cdp per il sostegno del venture capital con operazioni di mercato.
 

Gli impegni e la realtà

Patrimonio Rilancio o Destinato (incorreggibile la mania di cambiare i nomi per non comprendere l’evoluzione degli strumenti) si articola in tre distinti fondi. Quello nazionale di supporto temporaneo ha terminato il periodo di sottoscrizione nel giugno del 2022. Era in deroga al principio degli aiuti di Stato. Una ventina le operazioni concluse, consistenti in prestiti obbligazionari convertibili o subordinati.

Il secondo, quello nazionale strategico, si è risolto sostanzialmente nella partecipazione all’aumento di capitale di Granarolo. Per il terzo, quello per la ristrutturazione delle imprese, la scelta di Dario Scannapieco, amministratore delegato di Cdp, è stata di non impegnarsi direttamente. E di partecipare alle operazioni di ristrutturazione insieme a fondi specializzati nei turnround. Le operazioni finora chiuse sono solo sei; le manifestazioni d’interesse 29. Questi ultimi due fondi scadranno nel 2033.

Che cosa si scopre, alla fine, dopo tanta enfasi su quello che sembrava essere, addirittura, un nuovo Iri? Che poco più di due miliardi, sui 44 iniziali, sono stati finora impegnati — che non significa ancora investiti — nell’economia reale. Poche gocce nell’oceano.

Strumenti farraginosi, complessi e, alla fine, poco attrattivi per le stesse imprese. Forse era il caso di riflettere sul destino amaro di questo Patrimonio Destinato, prima di lanciare un altro fondo, cosiddetto sovrano, che tante aspettative crea nell’economia oltre a interrogativi — ma non sono di moda — sulla governance politica. Domanda ineludibile: era del tutto necessario?

In Italia c’è già Cdp Equity che è azionista, non di poco peso, di Tim, Open Fiber, Saipem, Webuild e altre aziende. Ha la maggioranza del Fondo italiano di investimenti dedicato al private equity, guidato da Davide Bertone; una quota di minoranza del 14 per cento di F2i, specializzato nelle infrastrutture, di cui è amministratore delegato Renato Ravanelli. Una volta era anche azionista del Fondo strategico italiano (Fsi) alla cui testa oggi c’è Maurizio Tamagnini. Il modello è Bpi France, partecipato dall’equivalente di Cdp — ovvero la Caisse des Dépôts et Consignations — che agisce però su altri ordini di grandezze economiche secondo un’ottica centralista, ma con logiche di mercato.

Ed è questo il punto: chi investe nei fondi vuole guadagnarci. Nessuno fa beneficienza sovranista. La governance deve essere chiara. La sovrapposizione tra il ministero dell’Economia, che controlla Cdp, e il ministero delle Imprese e del Made in Italy, cui fa capo il nuovo fondo, è ulteriore motivo di incertezza e confusione. Di fondi strategici in Italia ne abbiamo un baule pieno! Di tutti i colori! E poi ci sarebbe Invitalia che è, tra l’altro, azionista dell’ex Ilva di Taranto, ovvero Acciaierie italiane.

Questa frammentazione di attori è ancora più dispersiva se si pensa alla modestia delle cifre reali in gioco. E poi si chiede all’Unione europea di fare (giustamente) un grande fondo, ovviamente sovrano, per contrastare la concorrenza sleale di altri sistemi economici.
 

Se Bruxelles seguisse l’esempio italiano la partita sarebbe già persa in partenza.

 

(Fonte: Corriere Economia)

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