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La recessione si può evitare?

La recessione che verrà è così tanto sicura da essere ancora molto incerta. Il brusco rallentamento dell’economia trova un consenso generale. Sulle modalità, e soprattutto sui tempi, con i quali avverrà la temuta inversione di marcia, le previsioni e le opinioni sono, anche radicalmente, diverse. La differenza non è solo un dato statistico. Le conseguenze possono incidere in maniera significativa non solo sulla vita di famiglie e imprese ma anche e soprattutto sulla gestione della finanza pubblica. La Commissione europea si aspetta due trimestri di contrazione nei Paesi aderenti e un tasso di sviluppo nel 2023 per il nostro Paese limitato allo 0,3 per cento.Il Fondo monetario vede, invece, l’Italia (-0,2%) e la Germania (-0,4%) in recessione già nella prima parte dell’anno prossimo. Tra le agenzie di rating, Moody’s con un -1,4 per cento è decisamente più pessimista di Fitch(-0,7%). Il governo Meloni, nella revisione della Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza (Nadef) abbassa prudentemente, dallo 0,6 allo 0,3 per cento, la previsione a legislazione vigente per il 2023.

LE STIME SULL’ITALIA

Di fronte a scenari così differenti, coltivare qualche dubbio — e insieme una speranza che il futuro sia meno fosco — è del tutto legittimo. L’Italia è stata, in questi ultimi anni, il Paese con il più alto differenziale di correzione tra stime e consuntivi dei principali indicatori economici. Segno che il suo prodotto potenziale è un po’ sottovalutato e che sconta diciamo così una sorta di «pregiudizio statistico»? Il quesito non è mal posto. La prudenza nelle previsioni è buona norma. La segue tradizionalmente il Mef, il ministero dell’Economia e delle Finanze. Ma la ripresa degli ultimi due anni non è stata solo un logico e atteso rimbalzo — con il rilevante contributo dei sussidi, in particolare il 110 per cento — forse è anche l’effetto di una crescita autoctona e di un miglioramento inatteso della produttività e della resilienza. Quello che è accaduto con la stima dell’andamento del Prodotto interno lordo nel terzo trimestre di quest’anno è assai significativo.

CONTRAZIONE O CRESCITA LENTA?

Ci si aspettava una contrazione, rispetto al trimestre precedente, tra lo 0,1 e lo 0,2%. E invece abbiamo avuto un progresso dello 0,5%. Più del doppio dell’area dell’euro (0,2%). Con un quarto trimestre piatto, ovvero a zero, l’incremento del Pil del 2022 si attesterebbe al 3,9%. L’ultima versione della Nadef, nello scenario a legislazione vigente, si ferma al 3,7%. La ricaduta positiva sul prossimo anno — come stima l’ultimo rapporto di Mazziero Reasearch — è nella migliore delle ipotesi dello 0,8%. Nello spazio su Twitter dell’Istat, sempre nell’ipotesi di un quarto trimestre piatto, si è ipotizzata una crescita già acquisita per il 2023 dello 0,5%, contro lo 0,2 della Germania e della Francia. Non una previsione, solo una derivata statistica.

LE ATTIVITÀ ECONOMICHE

Com’è possibile che vi sia una divaricazione così ampia nelle misurazioni della nostra economia? Al punto da aver inflitto, dal 2019 in poi, una serie di figuracce nelle previsioni non solo al Fondo monetario, all’Ocse e alla stessa Commissione europea? L’Istat, nella relazione consegnata, lo scorso 9 novembre, alla commissione speciale di Camera e Senato, spiega che la variazione congiunturale del terzo trimestre, così sorprendente, è una sintesi della diminuzione delle attività nell’agricoltura e nell’industria — confermata dalla discesa dell’1,8% della produzione a settembre — e di «una particolare vivacità» del terziario, ovvero commercio, alberghi e pubblici esercizi, e nei trasporti che «congiuntamente rappresentano il 20% del Pil». In sintesi: non siamo in grado di capire in profondità quello che sta accadendo in un quinto dell’economia italiana.

Le ipotesi

Non è poco. Possiamo solo fare delle ipotesi. Per esempio, che la pandemia abbia lasciato nel tessuto produttivo non solo tante ferite, alcune fortunatamente temporanee, ma abbia anche cambiato la cosiddetta dynamic capability, cioè la resilienza del sistema, la sua adattabilità al nuovo contesto produttivo. Va anche detto — l’annotazione può apparire un po’ cinica — che il Covid e poi lo stress successivo allo scoppio della guerra, hanno espulso dal mercato gli operatori più deboli, rafforzando gli altri e facendo crescere la produttività complessiva dei settori. Inoltre, nei servizi il lavoro agile può aver avuto effetti positivi che fatichiamo al momento a valutare. L’Istat diffonderà il 30 novembre una stima più completa dei conti economici del terzo trimestre e avremo qualche risposta meno vaga.

Il valore del Pil

Il confronto a prezzi concatenati, cioè reali, con gli altri Paesi ci fornisce un quadro con qualche speranza aggiuntiva. Il valore del Pil che emerge dal terzo trimestre, confrontato con la media del 2019, registra un deciso miglioramento (1,3%) superiore a quello dei nostri partner europei. La Francia aumenta dell’1%, la Germania è progredita solo dello 0,4, la Spagna scende dell’1,6. Merito dell’andamento dell’export — che nei primi otto mesi dell’anno è cresciuto a valore del 22,1%, ma è positivo anche in termini di volumi (+1%), con un netto miglioramento delle ragioni di scambio. Ma soprattutto degli investimenti, la cui quota sul Pil, a prezzi correnti, è di 3,3 punti percentuali superiore a quella del 2019, al 21,3%. In questo caso — ed è un primo campanello d’allarme — è inferiore a quello degli altri Paesi. La Francia è al 24,9%; la Germania al 20,4.

La resilienza

Le note incoraggianti finiscono qui. La nostra economia è drogata anche da sussidi e bonus. Meglio non dimenticarlo. Il governo Draghi ha messo in campo, a sostegno di famiglie e imprese, 35 miliardi più di quanto fosse stato previsto dall’ultima legge di Bilancio. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha spiegato — nell’ultima audizione in Parlamento — che il discusso bonus del 110 per cento porta con sé già 38 miliardi di extra costi. «E per favorire i redditi medio alti», come ha detto la stessa premier.

L’indebitamento

La constatazione positiva dell’inaspettato, anche se non ancora misurato, grado di resilienza dell’economia — grazie a quel 20% di servizi, commercio e turismo — non deve far venir meno l’urgenza di piegare il rapporto tra debito e Pil. L’andamento dell’inflazione — che inizialmente aiuta un grande debitore — può dare l’impressione di una discesa quasi automatica. Non è così. Intanto, il solo adeguamento delle pensioni — anche per la corsa dei prezzi — ci costerà, in tre anni, più di 50 miliardi. E poi c’è un dato nella nota Istat che dovrebbe indurre una maggiore prudenza sul versante della spesa e delle troppe promesse elettorali. In soli sei mesi, nel 2022, l’Italia si è indebitata per il 6%o del proprio Pil. Un ritmo di indebitamento in diminuzione rispetto al corrispondente periodo del 2021 (10%). Ma, pensandoci bene, rimane molto elevato. Insostenibile specie di fronte a una risalita veloce dei tassi che spinge già la spesa per interessi del prossimo anno oltre i 70 miliardi. Guardando alla bozza delle nuove regole fiscali dell’Unione europea, forse riportare in equilibrio il saldo primario (quest’anno negativo dell’1,7%) è il migliore investimento in credibilità e serietà.

 

 

 

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