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La spinta del PNRR sulle opere pubbliche: se non investiamo ci fermiamo

Con grande fatica qualcosa si muove. E l’opera va, potremmo dire parafrasando una citazione felliniana (E la nave va..) di Bettino Craxi che diventò celebre nel momento in cui tornammo a crescere di più, a metà degli anni Ottanta, dopo gli choc petroliferi. Fu quello quasi uno spartiacque, più psicologico che altro. Anche perché la modernizzazione del Paese, nonostante fosse tanto declamata, una volta alleggerita la bolletta energetica del tempo, non decollò. O meglio, si interruppe per l’ingordigia dei partiti della Prima repubblica, per i rapporti incestuosi delle amministrazioni pubbliche con le imprese disposte a pagare tangenti per avere commesse e corsie preferenziali, per le successive — seppur parziali e non prive di errori — inchieste della magistratura. Ma non fu colpa di Mani Pulite, come da narrazione oggi prevalente. Mani Pulite fu la conseguenza di un groviglio di corruzione e di insipienza, il precipitato dell’escrescenza di corruzione dilagante, accettata come fosse endemica. La lezione storica è utile, purché la si impari senza comode omissioni. Non bisogna però dimenticare l’opposizione delle comunità locali, la scarsa consapevolezza dell’opinione pubblica più incline a bloccare che a promuovere, il perdurante effetto Nimby (Not in my backyard, non sotto casa mia), fenomeni tutt’altro che scomparsi. Anzi.
 

L’abbattimento dei tempi, la digitalizzazione

Grazie al Piano nazionale di ripresa e resilienza (e forse al fatto che bisogna rendere conto di più a Bruxelles) oggi assistiamo a una ripresa degli investimenti in infrastrutture e opere pubbliche che tutti dovremmo augurarci abbia successo. Nella trasparenza degli atti e nell’efficacia delle scelte, nell’onestà del lavoro. Ma ostacoli che un tempo sembravano insuperabili oggi appaiono meno impervi, più abbordabili. E il contributo alla crescita del Prodotto interno lordo (Pil) è decisamente superiore anche se non all’altezza di alcune ottimistiche previsioni di spesa formulate all’epoca del governo Draghi. L’ultimo rapporto congiunturale del Cresme — l’Osservatorio sulle costruzioni e sull’immobiliare, di cui è direttore generale Lorenzo Bellicini — spiega che sono stati aggiudicati, in un solo anno, lavori per 70 miliardi di euro. Un record. Gli aspetti procedurali, burocratici, le autorizzazioni, sono gli scogli sui quali si sono infranti, invecchiando inesorabilmente, tanti programmi di investimento. Ebbene, il tempo di affidamento, per le aggiudicazioni di valore superiore a un milione, si è ridotto — nell’ultimo quadriennio — da un anno in media a due mesi. Con un forte balzo nel 2023. Gli interventi sulla semplificazione e sulla digitalizzazione delle procedure hanno avuto un impatto decisamente positivo. Un esempio da seguire per accelerare gli iter di altri, e ugualmente importanti per il Paese, capitoli di investimento.

Le prime crepe: il coordinamento dei lavori tra Stato, Regioni e Comuni

Si è ridotto il numero medio dei partecipanti alle gare: erano 41 imprese nel 2016, sono 11 nel 2023. Non vuol dire che vi è meno concorrenza ma che si candidano aziende più attrezzate e, di conseguenza, presumibilmente più affidabili. Quando i partecipanti sono troppi, la gara è difficilmente gestibile e meno trasparente. Sono diminuiti i ribassi: dal 24,3 per cento del 2016 al 16,4 per cento del 2023. Gli aumenti dei prezzi dovuti all’inflazione non hanno bloccato il mercato. Poche le gare deserte. Si temeva peggio. La revisione concordata dei principali interventi del Pnrr e il passaggio di alcuni lavori a capitoli di spesa solo nazionali, hanno ridotto i margini di incertezza. Ma, alla fine, la grande incognita è quella legata ai tempi nell’apertura dei cantieri e all’osservanza dei cronoprogrammi.

Qui affiora un certo pessimismo. Come ha scritto sul Foglio Giorgio Santilli, i ritardi locali rischiano di vanificare, in alcuni casi, gli indiscutibili progressi ottenuti nella fase di aggiudicazione, in sede nazionale, dei lavori. L’esempio più emblematico è quello della circonvallazione ferroviaria di Trento. Il progetto Rfi, cioè del gestore della rete ferroviaria, ha avuto molte richieste di modifica provenienti proprio dal territorio. I tempi si sono allungati perché non è poi così gradevole vedersi passare i treni sotto le finestre. E l’opera è stata stralciata dal Pnrr. Il Terzo Valico, al contrario, rimane nel Piano. Ma sarà assai difficile, nonostante l’ultima iniezione di risorse fresche di 300 milioni, completarlo entro la fine del 2026. Problemi di carattere geologico, di friabilità delle rocce. Non è escluso che ci possa essere una correzione all’opera, una variante di necessità.

Il caso del Ponte di Messina e i numeri degli investimenti in infrastrutture

Il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, promette che aprirà il cantiere del ponte sullo stretto di Messina nel prossimo anno. Un esperto come Ercole Incalza, ex super dirigente dello stess ministero, lo ritiene altamente improbabile. Si sottovalutano le difficoltà amministrative locali, soprattutto sul versante degli espropri. Preoccupa anche la freddezza di una Regione a statuto speciale come la Sicilia plasticamente dimostrata dalla recente presa di posizione del presidente Renato Schifani contro il contributo forzato di 1,6 miliardi a carico delle due Regioni interessate alla realizzazione del mitico ponte. Incalza sostiene che la capacità di spesa nazionale non sia cresciuta più di tanto e non sia paragonabile a quella della legge Obiettivo dell’era berlusconiana (232 miliardi impiegati nell’arco di tempo dal 2002 al 2013). Ci si è interrogati poco, poi, sugli 80 miliardi non spesi dei fondi di coesione nel periodo 2014-2020. Inutile farsi tante illusioni.

In ogni caso il Cresme è ottimista sul contributo delle opere pubbliche alla formazione del Prodotto interno lordo (Pil). La stima a valori correnti riguarda l’intero settore pubblico allargato. Nel 2022 le opere pubbliche sono cresciute in valore del 9,5 per cento, a 51 miliardi. Nel 2023 sono aumentate invece del 21,2 per cento, a 61 miliardi. La previsione per il prossimo anno è di 70 miliardi con un incremento del 12,5 per cento. Un decimo della crescita del Pil del prossimo anno sarà dovuto agli investimenti in infrastrutture. Tre volte di più di quanto non accadesse nel 2022. Nel 2019, prima della pandemia, gli investimenti in opere pubbliche ammontavano a 36 miliardi. L’anno prossimo saranno quasi raddoppiati. Adelante con juicio.


 (Fonte: Corriere Economia)

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