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Le imprese cresceranno di più se tiriamo fuori il valore nascosto

Tra le tante classifiche internazionali che ci penalizzano — molto più dei nostri eventuali demeriti — ve n’è una passata inspiegabilmente sotto silenzio. Ed è quella relativa a quanti lavoratori italiani si sentano coinvolti e partecipi alla vita e ai destini aziendali. Secondo l’ultimo rapporto Gallup sullo «Stato globale del mondo del lavoro» saremmo, nell’employee engagement, addirittura all’ultimo posto. Un gradino sotto la Francia nella quale il malumore è esploso in una lunga e violenta protesta contro la riforma delle pensioni di Macron. E al cui confronto noi abbiamo una relativa pace sociale. Un lavoratore italiano su tre proverebbe un sentimento di grande tristezza pensando alla propria condizione. E non si tratta solo della retribuzione. Salari e stipendi sono, scandalosamente, tra i più bassi d’Europa. L’inchiesta si concentra soprattutto sulla condivisione dei valori. I più felici sono in Finlandia, Paese che ha uno dei tassi di suicidi più alti al mondo. Dovremmo invidiare alcune realtà dell’Est che non ci sembrano degli assoluti paradisi delle relazioni industriali e neanche dei modelli di welfare aziendale.

C’è una certa differenza, però, nelle risposte che un lavoratore può dare quando la domanda è relativa alla propria azienda o se invece ha carattere generale. E siamo portati a credere che in Italia questo spread (non c’è solo quello sui tassi d’interesse) sia maggiore che altrove. Specialmente in quei distretti, in quelle filiere del made in Italy ,dove la carenza di manodopera soprattutto specializzata è elevata e il lavoratore non è più, nemmeno nelle definizioni, un semplice dipendente, bensì un collaboratore, prezioso, indispensabile, e destinatario di crescenti attenzioni su tantissimi altri aspetti, dal welfare, alla formazione.

 

Le comunità

Le comunità italiane sono forti quando ci sono — e ci sono — aziende grandi e piccole fortemente inserite nel loro territorio e percepite nella loro utilità sociale. Più sono realtà solide più si ingrossa una certa alterità rispetto al Paese nel suo complesso vissuto come distante e in certi casi persino ostile. «Siamo bravi, nonostante tutto il resto». Secondo una ricerca Edelman del 2022 che riguarda 7 Paesi industrializzati ma non l’Italia, i lavoratori tenderebbero ad avere più fiducia nella propria azienda di quanto non ne abbiano nei confronti delle istituzioni e del governo.

E stentiamo a pensare che non accada qualcosa di simile anche in Italia per le aziende più responsabili e dinamiche. E qui veniamo al punto, che riguarda non solo il valore (economico) di un’impresa ma il significato della sua esistenza (purpose) che non è iscritto a bilancio ma è percepito come tale. E non solo dai dipendenti e dai fornitori, dai cosiddetti stakeholders.

In Italia la discussione è modesta se non nulla, nonostante i suoi modelli ante litteram, come Adriano Olivetti, Enrico Mattei, Gaetano Marzotto, siano spesso citati nel dibattito internazionale come esempi precoci. Conta più della visione e della missione. Non stiamo parlando di sostenibilità, quella è un’altra cosa. Un’azienda può essere sostenibilissima, avere un bilancio sociale irreprensibile, senza scaldare i cuori e suscitare il senso di partecipazione a un’avventura umana, innovativa, di trasformazione della società. La letteratura in materia è ormai vastissima. «Senza un purpose— scriveva ormai nel lontano 2018 Larry Fink, gran capo di BlackRock nella sua tradizionale lettera agli investitori — nessuna azienda, pubblica o privata, può raggiungere il suo pieno potenziale».

Colin Mayer, della Saïd Business School di Oxford, ha poi avviato con il suo Prosperity un’ampia riflessione sul ruolo sociale delle aziende e sul superamento dellashareholder value di Milton Friedman. Il fondatore di BrightHouse, Joey Reiman nel suo «Purpose», pubblicato in Italia da Vallardi, cita tanti casi di successo, da Apple a Lego, per spiegare che una storia aziendale, al di là del proprio risultato economico, è un romanzo della vita. Anche del singolo. Esserne parte in qualche caso è un privilegio. Suscita orgoglio. Non importa il ruolo.

 

L’eredità storica

Recentemente chi scrive ha partecipato all’assegnazione delle spighe d’oro olivettiane. L’azienda non c’è più, ma quello spirito che ha filiato tante nuove iniziative, c’è ancora. Più vivo che mai. Secondo un’indagine di Boston Consulting Group-BrightHouse, in Italia il 56 per cento dei dipendenti ritiene che la propria azienda non abbia uno scopo chiaramente definito, sia priva di significato al di là della sua profittabilità. Non riesca a dimostrarlo o non ci pensi neppure. «Non è una discussione astratta —spiega Francesco Guidara, managing director di Bcg-BrightHouse Italia e East Mediterranean — le aziende che hanno ben chiara la loro missione, i loro valori, registrano una maggiore crescita, riescono a trattenere più a lungo i propri collaboratori, fidelizzano meglio i loro clienti. Stiamo parlando del dna di un’azienda che non segue il ciclo degli amministratori delegati, non è espressione degli azionisti, non è qualcosa di scritto anche nel migliore dei modi in un bilancio sociale, né materia di comunicazione pubblicitaria. È un insieme di anima e memoria. Purtroppo su questi aspetti l’Italia è indietro, c’è poca consapevolezza e un’attenzione spesso sfocata. Le aziende familiari sono le più esposte alla perdita nel tempo del purpose. Il 70 per cento non va oltre la seconda generazione, solo il 10 per cento arriva alla terza. E a volte più che la mancanza di capitali, è fatale la diluizione dei valori, la voglia di continuare, provarci, innovare».

«Questo purpose — spiega Josip Kotlar, professore associato di Strategia e imprese familiari al Politecnico — spesso non è formalizzato. Ma non c’è bisogno di scriverlo se la memoria aziendale è tutelata, ed è positivo, anche sotto il profilo dell’etica individuale, l’esempio dei proprietari e dei dirigenti. E non è più forte se la famiglia resta nell’impresa. Anzi forse è vero il contrario. A volte si pensa di risolvere il tema con l’istituzione di una fondazione che però può essere intesa come qualcosa di estraneo. Al pari di unfamily officeche si dedica solo agli investimenti della famiglia. La sincerità nell’ammettere gli errori, più che la rivendicazione orgogliosa dei traguardi raggiunti, è spesso prova di autenticità. Accresce la credibilità verso i propri dipendenti e, in definitiva, verso tutto l’esterno, clienti compresi». Non favorisce l’affermarsi del purpose aziendale il nomadismo manageriale. L’ossessione di disegnarsi un percorso personale salvo rimproverare ai propri collaboratori — e soprattutto ai giovani appena assunti — di voler fare altrettanto.

 

(Fonte: Corriere Economia)

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