Torna al Blog

Le nuove privatizzazioni per incassare denaro? Sono le illusioni di Stato

Nessuno crede sia possibile realizzare, in soli tre anni, ulteriori privatizzazioni per un importo dell’uno per cento del prodotto interno lordo (Pil) com’è scritto nell’ultima Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (NaDef). Forse non ci crede nemmeno il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. Ma provarci è d’obbligo. A cominciare dalle Ferrovie dello Stato. E non sarebbe la prima volta. Ma anche se ci si riuscisse, separando tanto per cominciare Trenitalia da Rfi, ovvero la Rete ferroviaria, l’importo massimo stimato — come ha scritto Alessandro Barbera su La Stampa — sarebbe intorno ai 5 miliardi, un quarto della cifra necessaria. E il resto?

Dall’uscita dal capitale del Monte dei Paschi di Siena, salvato nel 2017 e costato finora ai contribuenti 8 miliardi. La minusvalenza è assicurata. Saranno forse più le occasioni di un impegno forzato dello stato nell’economia di quelle in cui risulterà conveniente disinvestire per ridurre — come prevede la legge — il debito italiano. Per esempio: come si comporterà il socio pubblico in acciaierie italiane, ex Ilva, se la ricapitalizzazione non verrà assicurata da ArcelorMittal? Il complesso siderurgico di Taranto, indispensabile midollo industriale italiano, non può rischiare di chiudere.

Alleggerire le quote di maggioranza relativa di Eni, Enel, Leonardo e Terna, specie con operazioni dettate dall’urgenza, potrebbe deprimere il corso dei titoli. Lungo questo percorso si gioca poi un’interpretazione sempre più estensiva (e non sempre giustificata) del cosiddetto golden power. Un saggio scritto da un banchiere di lungo corso, Pietro Modiano, e dall’economista Marco Onado per Il Mulino, offre sul tema delle privatizzazioni straordinari elementi di riflessione oltre a una disamina impietosa del declino economico del Paese. Errori ne sono stati fatti tanti, troppi. Anche da chi (scrivente compreso) si è illuso che l’uscita dello Stato creasse di per sé gruppi privati più forti e internazionalizzati.

Non è stato così, salvo pochissime eccezioni. Abbiamo invece tristemente assistito a tanti industriali, anche bravi nel loro settore, che parteciparono alle privatizzazioni «non tanto per portare know how imprenditoriale o per assumere dimensioni più consone alla competizione globale — scrivono Modiano e Onado — quanto per passare dal settore manifatturiero a quello dei servizi, cioè per rifugiarsi in attività non tradable, al riparo dalla concorrenza internazionale o comunque protette dalla politica».

Il titolo del libro è Illusioni perdute. Alla Balzac. Questa impietosa disamina delle privatizzazioni, avviate ormai trent’anni fa, non dovrebbe ulteriormente accendere trasversali istinti statalisti — nostalgie di Iri, Efim, Federconsorzi, Egam che crollarono onusti di debiti e ormai preda dei partiti — ma spingere la classe dirigente nel suo complesso, soprattutto quella privata, a un esame di coscienza. Un approfondimento finora mancato sul perché, per esempio, non abbiamo quasi più grandi aziende mentre speravamo ardentemente di crearne di nuove e robuste proprio attraverso le vendite delle partecipazioni statali.

Il principale gruppo industriale non è più, legittimamente, italiano (Fiat oggi Stellantis) ma il suo esodo silenzioso non ha suscitato alcuna vera discussione. Abbiamo certo, ottime medie industrie, spesso leader di segmenti di mercato anche piccoli, di rilevante valore. Un orgoglio. Ma, come notano gli autori, le medie imprese eccellenti — escludendo quelle appartenenti a gruppi maggiori o a controllo estero — coprono solo il 2,4 per cento del Pil. Vi è poi un universo di oltre 4 milioni di microimprese, intrepide e volenterose finché si vuole, «ma incapaci di crescere al di fuori dei loro mercati locali, molte delle quali per stare in piedi devono uscire dalle regole e pagare il lavoro sotto il livello di sussistenza».

 

Il meccanismo

Persiste ben esteso e radicato — ed è questa è l’idea forte del saggio — un vasto «circolo vizioso, fra comportamenti della classe dirigente, sistemi di potere impropri e pezzi della società civile, nocivo per la democrazia e lo sviluppo». Questo progressivo disossarsi della struttura produttiva italiana è all’origine della caduta della produttività totale dei fattori e del lento e inesorabile declino del nostro tasso di sviluppo. «Se solo avessimo tenuto il passo delle altre economie della moneta unica, avremmo ciascuno 5 mila euro l’anno in più a testa». Ogni abitante. Un’altra tesi che farà discutere — e impone anche a gran parte della pubblicistica (scrivente ancora una volta compreso) qualche ulteriore moto di sincerità — è che la flessibilità del lavoro non ha arrestato la caduta della produttività, ma l’ha accentuata.

La competitività non si misurava (e non si misura) solo con il costo del lavoro. Gli anni della svalutazione della lira hanno lasciato un segno indelebile nel comportamento degli attori economici. Tracce visibili ancora oggi nella ricerca di scorciatoie alla concorrenza, alla quale non sono refrattari solo tassisti e balneari.
L’illusione che vi fosse una sorta di «via finanziaria allo sviluppo», lastricata di debiti, difese corporative, rapporti incestuosi con la politica (fino all’esplodere di Mani Pulite) è definita, da Modiano e Onado, la tentazione di Mefistofele. L’idea che si potesse risolvere sempre e tutto con il debito pubblico o privato. Tentazione di stringente attualità, in questi anni, anche se giustificata (in parte) dalle emergenze.

Le occasioni perdute della grande impresa privata, lungo la strada impervia dell’internazionalizzazione, sono state numerose. Pirelli, oggi in piena sindrome cinese, che fallisce le acquisizioni di Firestone e Continental; la scomparsa Banca commerciale respinta sull’americana Irving; il «condottiero» De Benedetti sconfitto nell’assedio alla belga Sgb. Montedison aveva Hercules e un indiscutibile primato nella farmaceutica prima di finire nel gorgo debitorio della vanità ravennate dei Ferruzzi e di Gardini.

Con le privatizzazioni ci si attendeva una crescita dimensionale all’insegna dell’efficienza e dell’innovazione e non una generale riluttanza al rischio pacata solo dal richiamo irresistibile dell’affare. Un episodio significativo di questo atteggiamento di distacco (o timore) fu — a giudizio degli autori — il progetto Guarino per la costituzione di due superholding con i gruppi pubblici del luglio del 1992. Prevedeva una forte partecipazione dei privati. Dissero tutti di no.

 

Mancanza di visione

Telecom, oggi Tim, era un gioiello nazionale. E non lo psicodramma attuale di una società caricata di troppi debiti dalla sciagurata offerta pubblica dei cosiddetti capitani coraggiosi. Nel famoso «nocciolino duro» iniziale della privatizzazione di Telecom, il gruppo Agnelli si impegnò «micragnosamente» per il solo 0,6 per cento. L’Italia arrivò all’appuntamento delle privatizzazioni, avviate dal negoziato Andreatta-Van Miert, con l’acqua alla gola del debito pubblico e delle imprese statali. «Un accordo indubbiamente severo ma la testa nel cappio ce la infilammo noi».
Non vi era alcuna strategia. La suggestione ciampiana della public company— studiata per la Commerciale e il Credito italiano — venne bellamente aggirata con la regia della Mediobanca di Cuccia.

Nel credito alcune Fondazioni mostrarono maggiore lungimiranza — e infatti oggi abbiamo due giganti come Intesa Sanpaolo e Unicredit — anche se non si è formato un attore nazionale nel risparmio gestito. E paradossalmente sono state di successo quelle formule che all’epoca sembravano poco più che un ripiego. Quelle in cui lo Stato, accettando le regole del mercato, sceglieva di scendere di peso senza farsi del tutto da parte.

Quei pacchetti di Eni, Enel, Terna, Leonardo che rientrano giocoforza nell’ipotetico uno per cento di privatizzazione promesse per tentare di ridurre un debito che non scende. Quello da cui, trent’anni fa, tutto è malamente partito. La tentazione di Mefistofele, appunto.

 

(Fonte: Corriere Economia)

Contattaci per una pre-analisi gratuita e senza impegno

Valuteremo insieme le tue necessità e ti proporremo un piano d’azione per reperire i capitali di cui hai bisogno.

Iscriviti alla nostra newsletter

Ricevi novità e consigli finanziari utili alla tua attività.