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Licenze balneari e taxi, banche e Irpef agricola: le lobby vincono spesso (e l’economia si ferma)

L’ultima decina di giorni ci ha ricordato che un convitato di pietra si aggira per l’Italia. In realtà lo fa da almeno una trentina di anni, ma ultimamente lo si notava meno o fingevamo di non vederlo: l’economia non versa in buona salute, il malessere cronico sta tornando a manifestare i suoi sintomi e stende un’ombra sul futuro. Eppure riconoscere questa diagnosi, affrontarla, non sembra la priorità della classe politica. Di tutta la classe politica, quasi per intero. Il disinteresse è tale che si vedono ormai ovunque segni che il sistema sta diventando sempre più permeabile a tante piccole o meno piccole controriforme: basta che un gruppo d’interesse alzi la voce – o agisca sapientemente nella quiete dei corridoi – per ottenere trattamenti di favore per sé e a spese del resto del Paese. Di questo passo, una miriade di agenti lillipuziani finiranno con il bloccare l’Italia a terra. Ancora e sempre di più. Per rendersi conto che il malessere storico del Paese non è magicamente svanito dopo un biennio di rimbalzo post-pandemico, drogato dai maxi-bonus immobiliari concessi a debito, basta dare un senso al flusso delle notizie. L’anno scorso l’Italia è cresciuta dello 0,6%, spendendo (almeno) 21 miliardi del Piano di ripresa e resilienza. Poiché secondo la Commissione europea ogni euro del Pnrr investito in Italia genera nell’immediato 26 centesimi di crescita, si può immaginare che senza quello l’Italia sarebbe cresciuta di appena lo 0,3% (più o meno).

Le previsioni di crescita

Quest’anno la previsione di crescita di gran parte degli osservatori – da Bruxelles al Fondo monetario internazionale – è di 0,7%. Ma poiché in teoria dovremmo spendere almeno 40 miliardi di Pnrr, senza quello il Paese viaggerebbe a un ritmo di crescita attorno allo 0,2%. E il Pnrr, senza il quale saremmo quasi completamente fermi, per ora è un piano non ripetibile.

Il ruolo dell’inflazione

Anche l’inflazione dà segnali di questo cagionevole stato di salute. Giorni fa, l’agenzia statistica Eurostat ha mostrato che l’Italia ha i prezzi più freddi dell’area euro: a gennaio appena 0,9% di aumenti in un anno e addirittura un calo dell’1,1% rispetto a dicembre 2023 (grafico sopra). In sé è una buona notizia, perché ridà ossigeno a famiglie messe alle strette dal carovita negli ultimi due anni. Ma una frenata dei prezzi tanto brusca proprio in Italia è anche sintomo che il potere d’acquisto di decine di milioni di persone è così debole che produttori e distributori, pur di smaltire la merce, ormai sono costretti a tagliare i listini. E con l’occupazione ai massimi da decenni, in teoria non dovrebbe succedere; non se l’economia non producesse lavoro povero in milioni di imprese piccole e piccolissime. Da noi invece sta accadendo: decine di milioni di persone faticano ad arrivare a fine mese. 

I dubbi sul Pnrr

Infine proprio dal Pnrr vengono ulteriori segnali che l’intera classe politica sembra sottovalutare. E non è solo il ritardo già accumulato per cui, in teoria, nei prossimi tre anni dovremmo triplicare la velocità di spesa a 60 miliardi di euro l’anno – un ritmo mai visto in Italia – per riuscire a usare tutti i fondi entro il 2026. Anche sull’impatto delle risorse è lecito avere dei dubbi. Mercoledì scorso la Commissione europea ha pubblicato un “documento di lavoro dello staff” da cui si capisce quanto segue: la crescita in più per ogni euro investito sul periodo 2020-2026, fra i principali beneficiari del Recovery, in Italia è la più bassa. Intendo dire, rispetto alla crescita che ci sarebbe se non ci fosse il Piano. Dunque, ecco la crescita attesa in più dal 2020 al 2026 per ogni euro speso del Recovery:

Croazia 0,51 euro
Portogallo 0,50
Bulgaria 0,48
Polonia 0,47
Grecia 0,32
Spagna 0,31
Romania 0,29
ITALIA 0,26
 

Il malessere della crescita italiana 

È vero che il malessere della crescita italiana semi-scomparsa è un dettaglio di un quadro europeo anch’esso molto precario. Ma sembra che mettere benzina nel motore di questo Paese con il Pnrr produca meno accelerazione che negli altri. Nel motore c’è qualcosa che non va. E c’è molto da aggiustare: urgentemente, prima che il debito pubblico sfugga di mano. Ci si aspetterebbe dunque che a Roma si sia febbrilmente al lavoro in cerca di soluzioni. Per dirne una, il Pnrr prevede quest’anno ben duecento semplificazioni amministrative in 28 aree prioritarie. E’ uno dei grandi temi. Da mesi centinaia di piccoli e medi imprenditori mi stanno scrivendo che considerano proprio la burocrazia la prima causa che li frena e impedisce la crescita della dimensione aziendale. Su questo sfondo, sarebbe logico che il tema delle semplificazioni diventasse un grande cantiere nazionale, che in pubblico che ne parlasse di continuo e il ministro della Pubblica amministrazione fosse una star contesa dai talk show. Scherzo, ovviamente: non sta succedendo nulla. Non che io sappia. L’Italia non va bene, eppure a Roma sembra non interessare a nessuno. 

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Le lobby in Italia

Si assiste piuttosto alla tendenza opposta: poiché la politica economica appare ormai subordinata nell’agenda del Paese, il terreno diventa favorevole perché ogni gruppo d’interesse passi all’azione. Per ciascuno di loro è il momento di ritagliarsi il proprio piccolo o grande coriandolo d’interesse corporativo a spese del resto del sistema. Infatti sta accadendo. Permettetemi un rapido elenco di eventi diversi, tutti recenti, che rientrano in questa categoria.

1. I titolari delle concessioni balneari, in tutto 6.592 soggetti, sono ancora una volta riusciti a congelare il loro diritto a non mettere a gara l’uso del suolo pubblico nel quale operano spesso da decenni. Il governo li sta assecondando. L’Osservatorio dei conti pubblici della Cattolica nota che pagano un canone così irrisorio da versare per lo sfruttamento economico di circa 4.000 chilometri di spiaggia più o meno tanto quanto incassa il Comune di Milano per i soli affitti dei negozi nella Galleria Vittorio Emanuele. E’ una situazione senza eguali in Europa, che permane.

2. La difficoltà di trovare un taxi nelle città e l’esclusione dal mercato di servizi a costi competitivi di piattaforme alternative, tipo Uber, sono uno dei talloni d’Achille del turismo italiano. L’aumento delle licenze a Milano, Bologna e soprattutto a Roma non sembrano sufficienti a rispondere alla domanda. Le altre cinque principali città, fra cui centri turistici come Firenze, Napoli e Genova, non stanno affatto aumentando le licenze. Né dai governi precedenti, né dall’attuale emerge un piano organico per assicurare uno standard europeo del servizio nei grandi snodi del turismo “petrolio d’Italia”.

3. Il disegno di legge “per la competitività dei capitali”, ora in approvazione definitiva in Senato, torna ad alzare da 8 a 16 miliardi la soglia di attivo a cui le banche popolari mantengono il cosiddetto “voto capitario”. Si tratta di un sistema che dà a ciascun azionista un solo voto, qualunque sia la sua quota nel capitale, e ha permesso gli arroccamenti che portarono agli scandali dello scorso decennio (Popolare di Vicenza, Banca Etruria e tante altre). Una riforma aveva limitato il voto capitario alle banche piccolissime, ma ora si torna ad allargarlo un po’: senz’altro su specifica richiesta a qualche personalità politica di qualche istituto restio ad avere una normale struttura del capitale. La Banca centrale europea, preoccupata, avrebbe scritto all’Italia chiedendo spiegazioni.

4. Nello stesso disegno di legge sta passando una norma ad hoc che non ha eguali in Europa, volta a rendere complicata la presentazione all’assemblea degli azionisti di una lista del consiglio d’amministrazione per l’elezione del successivo consiglio. Se fosse stata già in vigore, questa regola avrebbe dato a soci di minoranza un effettivo diritto di veto su molte decisioni in alcune grandissime società finanziarie. Anche questa norma è chiaramente ispirata da singoli interessi particolari. Per non doverla subire, alcune grandi aziende stanno già pensando di trasferire la loro sede sociale in Olanda.

5. Le proteste degli agricoltori hanno prodotto l’esenzione dall’Irpef fino a 10-15 mila euro. Ma non si tratta di 10-15 mila euro di reddito, bensì di (antiquati) valori catastali dei terreni. In sostanza avranno diritto a pagare pochissimo o niente in tasse anche proprietari di ettari a uva pregiata o usati per allevamenti di bestiame per formaggi pregiati, con redditi personali di centinaia di migliaia o milioni di euro: un paradiso fiscale di categoria. Il governo, che in Legge di bilancio aveva cercato di far pagare almeno qualcosa a queste categorie, ha fatto marcia indietro. Il Pd, che aveva introdotto l’esenzione una decina di anni fa, ha incredibilmente continuato a difenderla con la segretaria Elly Schlein.

6. Del concordato biennale preventivo per gli autonomi e le imprese ho già scritto in passato. Sono certo che alcuni dei suoi autori stiano cercando, in buona fede, di far pagare almeno qualcosa di più in tasse a categorie che evadono al 70% circa. Ma molti dei politici che approveranno questa norma la vedono come un modo di assecondare e premiare categorie ostili al concetto stesso di fedeltà fiscale verso lo Stato.

Sia detto, per onestà, che non va sempre così: il disegno di legge "capitali" ha vari aspetti positivi e il governo ha mostrato coraggio, per esempio, nel riprivatizzare Monte dei Paschi o nel decidere di mettere sul mercato nuove quote di Poste italiane. Ma la lista dei cedimenti ad interessi particolari potrebbe continuare, per mille rivoli. Il punto comune a tutti è che ogni volta si considera l’economia ancella della battaglia politica, della lotta elettorale. Non un fine in sé. Questo porta sempre più spesso i politici ad essere pieghevoli alle lobby, anche minime, purché determinate e disposte ad assecondare le ambizioni nelle urne di questo o di quello. Ma così continueremo a mettere la benzina degli investimenti del Pnrr in un motore rotto. E non ce lo possiamo permettere.

 

(Fonte: Corriere Economia)

 


 

 

 

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